Autolesionismo: cosa il Blue Whale dovrebbe dirci sui nostri figli

 

 

“Tutti ricordano la loro prima volta. Il momento in cui hanno sentito dolore. Io lo associo a una sera di novembre di nove anni fa. La associo al freddo metallo delle forbicine da unghie fatte scorrere sulla pelle del mio braccio sinistro. Ricordo una sensazione di calma, e di libertà. Non sapevo quanto quella calma e quella libertà mi sarebbero costate. Adesso è troppo tardi.”

Ilaria.

BLUEWH

Il fenomeno Blue Whale ha scoperchiato un vaso di pandora. Non è detto che le morti per suicidio in tutto il mondo siano riconducibili a questo gioco, non è detto che Le Iene (un programma di infotainment, non di informazione giornalistica) abbiano centrato la verità, anzi. È molto probabile che quei video agghiaccianti, in cui alcune persone si gettano nel vuoto, non abbiano collegamenti con la balena blu. Ma qualcosa di cui siamo certi c’è: l’autolesionismo è una piaga sociale. E il Blue Whale, reale o presunto che sia, ce ne ha fatto rendere conto. Chi non ha mai visto dei segni rossi sulle braccia di qualche ragazzo? Chi non ha mai pensato che, forse, sentire un momentaneo dolore fisico possa scacciare il dolore mentale? E più se ne parla, più è peggio. Perché si rischia che chi legge si convinca che davvero l’autolesionismo sia una soluzione invece che un problema. Guarda caso, dopo il servizio delle Iene, sono decine gli hashtag comparsi su Instagram e Facebook, “#IamWhale” “#Bluewhalechallenge”, e decine sono le immagini di balene, di tagli, che i social network rincorrono per censurare al più presto. Se vi state chiedendo se vostro figlio sia una “Balena blu”, se abbia contatti con un “Curatore” che lo obbliga a svegliarsi alle 4 del mattino e a compiere azioni pericolose, di sicuro siete preoccupati. Ma finora non è stato rintracciato nessun curatore che avesse una qualche relazione con ragazzi italiani. Chi è stato visto con tagli sulle braccia, probabilmente era già autolesionista, e il fenomeno del Blue Whale è stato soltanto un espediente per identificarsi con un gruppo, per non sentirsi soli, per avere una motivazione in più per potersi fare del male. Il problema è che l’autolesionismo di per sé non fa notizia. Nessuno ne parla a viso aperto, anzi, si moltiplicano gli account segreti con nome falso su Facebook e Instagram che pubblicano le foto di tagli. E più numerosi sono questi account, più gli adolescenti saranno indotti a imitare comportamenti dannosi. Non stiamo abbastanza vicini ai nostri figli, non li ascoltiamo, non facciamo domande. E loro, invece di parlare, agiscono. Si tatuano sul corpo le cicatrici interiori, quando la soluzione più semplice e più adulta sarebbe comunicare le proprie emozioni a qualcuno, usare la voce invece dei gesti. Tutte le volte che ignoriamo nostro figlio, tutte le volte che gli diciamo che non abbiamo tempo, lo stiamo inducendo a pensare che non ci importa delle parole, ma solo dei fatti. È per questo che anche loro, allora, passano ai fatti. Azioni estreme, eclatanti, che suscitano rabbia e paura, ma almeno suscitano qualcosa. Almeno attirano l’attenzione. E voler attirare l’attenzione non è un comportamento da criticare, anzi, contiene tutta la vitalità di chi ha il desiderio di affermare il proprio essere, di dire “Io sono qui, esisto”. Ma ci sono modi di attirare l’attenzione che non sono dannosi per noi stessi: ad esempio, un post sui social, un biglietto lasciato sul tavolo, una confessione fatta sottovoce, un abbraccio sincero, un semplice “Sto male” detto alla persona giusta.  Non dobbiamo vergognarci delle nostre emozioni negative, perché sono inevitabili, anzi, necessarie per la crescita dell’anima. L’uomo con il tempo, con la gioia ma soprattutto con la sofferenza, impara a costruire se stesso, ad amare, a capire i propri bisogni.

 

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